LE PAROLE SONO IMPORTANTI
Le parole sono importanti. Chi parla male, pensa male.
Non è una frase trita e ritrita da registi radical chic di una certa sinistra da salotto, ma una grande verità. Le parole sono importanti perché contribuiscono a formare il pensiero e l’opinione di chi le legge e dice. E in un’epoca di superficialità, fatta di lettere maiuscole, punti esclamativi misti a numeri uno, in cui “intrigante” ha assunto valore positivo da negativo che era prima, in cui si parla di “rissa” per indicare uno scambio piccato di twit tra celebrità, anche descrivere la dinamica di un incidente può avere il suo lato fuorviante.
Si tratta di dinamiche sottili che avvengono in larga parte in buona fede. Ma è tanto radicata l’ottica auto-centrica, che non ci facciamo più neanche caso. In quasi tutte le occorrenze, quella che avviene nei titoli giornalistici che riguardano la sicurezza stradale è un’operazione più o meno consapevole di deresponsabilizzazione di chi guida un’auto.
Gli effetti di queste dinamiche hanno una storia lunga che coincide col benessere indotto dall’automobile e la conseguente colpevolizzazione degli utenti “fragili” della strada. Il messaggio che passa punta a dipingere la velocità come un diritto, o come un effetto collaterale inevitabile, spostando la responsabilità su fattori esterni. Il risultato a livello inconscio è la rassegnata accettazione della mortalità sulle strade come un fato ineluttabile. O nei casi peggiori, la becera retorica del “Se l’è cercata”.
E così, come se l’è cercata una donna violentata che va in giro di notte in minigonna, in una parte dell’opinione pubblica ciclisti e pedoni diventano gli incoscienti che si azzardano a fruire di quello spazio pericoloso che è la strada. Ma non lo sai, che è pericoloso? Che ti aspetti?
Cito casistiche estreme, certo.
Ma un caso estremo nasce da mille, piccole inezie, molte di queste basate su concetti ancora prima che su azioni. Quindi questo non vuole essere un puntiglio fine a sé stesso, piuttosto una riflessione da un’ottica diversa dalla solita. Vediamo qualche esempio:
- Strada killer. Diffusissimo ovunque, al punto da entrare nel lessico abituale della cronaca. Fino a prova contraria, in inglese il suffisso -er è un nomen agentis, indica cioè colui che compie una certa azione. Fino a prova contraria, un killer è “colui che uccide”, un assassino. Ora, non mi risulta che un’entità inanimata come la strada possa commettere un omicidio, se la si usa in maniera corretta.
- Auto impazzita. Come sopra: espressione più diffusa della peste nel Medioevo. Ma impazzire significa perdere il senno, prerogativa di chi ha (avrebbe) la ragione. Ancora una volta la causa viene spostata dal soggetto all’oggetto. Se l’auto è impazzita, qualcuno probabilmente stava correndo più di quanto la situazione richiedesse.
- Il conducente si è fermato a prestare soccorso. Qui entriamo nel campo della gara al ribasso del livello medio di umanità. Ci si sofferma sempre più spesso a evidenziare un’assenza di reato, l’omissione di soccorso, quasi fosse un merito. Un altro passo verso la deresponsabilizzazione collettiva. “Però, vedi che bravo, almeno si è fermato!” Magari non ha avuto modo di scappare, chissà.
- Scontro auto-ciclista, il secondo ha la peggio. Questo titolo vince il premio G.A.C. Ma a parte questo, è sintomatico il fatto che nell’accostamento tra le due parti dell’incidente si citi il mezzo (auto) e la persona (il ciclista).
- quello che però più mi ha fatto pensare è l’identikit della responsabile dell’incidente ai Colli Portuensi della scorsa settimana. Ne esce un ritratto quasi stereotipico, ricavato da informazioni sparse sui social network: guida sotto effetto di cocaina, Smart, patente revocata da un anno, precedenti penali per estorsioni, simpatie neofasciste. Questo ritratto impietoso è perfetto per assolverci tutti, dipingendo la responsabile come il mostro cattivo delle fiabe. Quando non è possibile scaricare la colpa sulla strada o sull’automobile, si calca la mano sui “cattivi”. Infierire su questi casi è la tipica retorica delle “mele marce”, tanto citata in occasione degli abusi in divisa, e contribuisce a restringere un problema esteso scaricandolo su pochi soggetti border-line.
C’è un segno di gesso per terra
e la gente che sta a guardare
Qualcuno che accusa qualcuno
Però lo ha visto solamente passare
E nessuno ricorda la faccia del boia
è un ricordo spiacevole
E resta soltanto quel segno di gesso per terra
Però non c’è nessun colpevole
(Francesco De Gregori, Tempo reale)
Che poi della colpa uno ci fa poco, a danni fatti.
Più utile della colpa è la responsabilità: se conosci la seconda, puoi evitare la prima, a vantaggio di tutti.
E finché si continueranno a considerare normali e inevitabili dei numeri da guerra civile, con un ciclista morto ogni 35 ore sulle strade italiane, allora sì, potremo dire che le parole sono importanti.
E no, non sarà un puntiglio retorico.
Le parole sono importanti perché contribuiscono a formare il pensiero e la cultura.
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