DAL TEVERE A RIONE S. ANGELO, UN ASSAGGIO DI ‘CITTÀ LASAGNA’: PARTE II
Siamo arrivati all’altezza dell’isola Tiberina. Qui anticamente il flusso veniva rallentato ed era più facile, a valle, attraversare il fiume. La riva destra veniva detta veiente, da Veio, prima storica nemica etrusca dell’antica Roma.
Sulla riva sinistra sono state trovate evidenze di scambi commerciali tra i greci delle colonie e le altre popolazioni italiche: probabilmente vi si trovava un mercato più antico di Roma stessa. Si è anche avanzata l’ipotesi che l’antichissima carica romana di capo religioso, Pontifex Maximus, fosse derivata da particolari responsabilità o ritualità legate proprio ai ponti.
I platani
In questo raro momento di calma possiamo guardarci attorno per apprezzare gli alberi che, con le rigogliose chiome, rendono il lungotevere bellissimo, sia in primavera ed estate che in autunno quando si tingono dei colori dei poeti o in inverno quando incorniciano la debole luce lasciandola filtrare attraverso i rami spogli. Questi platani sono stati piantati nel 1870 e tra i loro rami possiamo sentire soffiare il vento della storia. Quella stessa storia che da un lato mise fine al ghetto ebraico e dall’altra umiliò il fiume dimenticandosene e perdendo una grande opportunità. Non sarà un caso se tutte le grandi civiltà sono nate vicino ad un grande fiume.
Vi ho portato qui non solo per godere della bellezza del luogo tra ponte Fabricio, autentico ponte romano del 62 a.C., e il Teatro di Marcello, uno dei monumenti più affascinanti che porta con sé ben visibili i diversi strati costruiti nel tempo, giustificando così il soprannome di città lasagna conquistato da Roma grazie ai secoli d’arte e storia di cui è ancora viva testimonianza. La ragione principale della nostra passeggiata risiede proprio nella stratificazione storiografica qui incredibilmente visibile. Siamo nel rione Sant’Angelo, il più piccolo di Roma, ove si erge l’edificio in stile assiro-babilonese del Tempio Maggiore, la sinagoga dell’unità d’Italia e della fine della segregazione ebrea.
Il ghetto
Di questo ghetto, di pochi anni più giovane di quello veneziano, della sua pianta originale niente rimane nella topografia odierna. Ma di quei quattro isolati costruiti a fine XIX sec. che ancora oggi chiamiamo ghetto ebraico, e del rione, parleremo meglio un’altra volta. Oggi vorrei soffermarmi con voi tra piazza Monte Savello e Via Portico D’Ottavia.
Il primo è frutto delle demolizioni anni ’30, anche se ricorda il nome medievale delle rovine di Teatro Marcello, su cui fu eretta la rocca dei Savelli, la seconda era già un’antica via romana che si trovava nella parte meridionale del Campo Marzio. Questa zona vide i suoi primi edifici grazie alla spinta urbanistica di Giulio Cesare e poi di Augusto. Secoli dopo vi si affacciò una delle porte del “serraglio degli ebrei” che vennero qui rinchiusi, privati dei diritti, a partire dal 1555 a causa della bolla Cum nimis absurdum del papa Paolo IV Carafa.
Possiamo ancora leggere un’iscrizione che ricorda le prediche coatte, alle quali veniva costretta la comunità ebraica, sulla facciata della chiesa di San Gregorio della Divina Pietà, davanti alla quale oggi troviamo una jeep militare quasi a ricordare gli acuti conflitti nella terra promessa. Sopra le loro teste la citazione biblica bilingue, in latino e greco, recita: “Tutto il giorno ho teso le mie mani ad un popolo incredulo, che procede lungo una strada non buona, seguendo le proprie idee. Un popolo che sempre mi provoca all’ira, proprio davanti al mio volto”.
Piazza Gerusalemme
Lo slargo, neanche a farlo apposta, si chiama Piazza Gerusalemme e ospita uno spazio adibito a parcheggio fino al Portico d’Ottavia, quell’edificio e mostra d’opere d’arte che fu eretto da Augusto e dedicato alla sorella. La chiesa, restaurata in stile barocco da Filippo Barigioni, architetto felicemente romano del XVIII sec., è detta anche San Gregorio a Ponte Quattro Capi. Proprio perché qui al posto del parcheggio, delle macchine e delle mura del ghetto sorgevano anticamente buffe e misteriose sculture a quattro teste, forse rappresentanti il dio Giano, che oggi adornano il Ponte Fabrizio e che secondo una ridicola leggenda rappresentano quattro litigiosi architetti che non seppero mettersi d’accordo e dunque vennero decapitati per volere di papa Sisto V.
Resta connesso con il blog dell’Associazione Salvaiciclisti Roma. Ogni giorno pubblicheremo contenuti autentici sul ciclismo urbano a Roma. Seguici dove più ti piace sulla nostra pagina Facebook, su Twitter o direttamente da qui. Raccontaci la tua esperienza, compila il questionario.